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“Storia dei Vampiri” di Plancy e l’immortalita di un archetipo

Fin da giovanissimo Collin de Plancy (1793 – 1887) ebbe a dedicarsi alla filosofia e all’esoterismo, scrivendo molti dei suoi testi più originali in un eremo nei pressi del Sognefjord, in Norvegia, dove si ritirò appena diciottenne; tra di essi la prima stesura della sua opera più celebre, il Dictionnaire Infernalmanuale di demonologia dove vengono classificati dettagliatamente tutti i demonî delle varie religioni e si tratta  — rigorosamente in ordine alfabetico, alla maniera di Voltaire e degli enciclopedisiti — di tutti gli argomenti oggetto delle scienze occulte.

Si è molto discusso sulle sue idee giovanili: si è anche ventilata l’ipotesi di una sua affiliazione ad una setta dedita al culto di Lucifero volta alla propaganda filosofica; peraltro fu il controverso Aleister Crowley a definire Plancy: “Sommo filosofo del sapere proibito”. Eppure, in modo simile a quanto accadde nella vita di un altro autore francese, Joris Karl Huysmans, a partire dal 1841-1842 il filosofo blasfemo e anticlericlericale si convertirà al cattolicesimo, pubblicando una edizione del Dictionnaire Infernal riveduta alla luce della dottrina cattolica e in cui è espunta qualsiasi traccia di anticlericalismo.

Questa Storia dei Vampiri, scritta da Plancy sull’esempio del benedettino Dom Calmet,  e ripubblicata in questi giorni in Italia da Luni Edizioni, ha ad oggetto invece una accuratissima disamina e analisi della figura del “vampiro” e dei casi di vampirismo, veri o presunti, che dai tempi più antichi,  ma con maggior incidenza nel Settecento (secolo in cui nacque la figura del “vampiro” per come la conosciamo), ebbero a registrarsi in Francia e nell’Europa occidentale, o di cui giunse notizia dall’Europa dell’Est e dal Medio Oriente, dove da tempo era andato accumulandosi un fitto repertorio di credenze e racconti su questa e similari “creature della notte”.

Questo libro, pubblicato nel 1820 a Parigi solo un anno dopo The Vampyre di John Polidori e due anni dopo Frankenstein, or the modern Prometheus di Mary Shelley, anticipa di più di mezzo secolo Dracula di Bram Stoker e costituisce la base e il fondamento degli studi successivi.

È singolare il fatto, osservato dallo stesso Plancy, che fosse stato proprio il secolo di Voltaire e degli enciclopedisti a registrare il maggior numero di racconti sui “vampiri”. Ciò, tuttavia, non dovrebbe stupire, in quanto proprio nell’età dei Lumi si diffonderà la concezione di un Medioevo “oscuro” che però, come enuncerà proprio nel XVIII secolo Edmund Burke con la sua teoria del delightful horror: “come tutto ciò che suscita terrore può nondimeno affascinare”; a dimostrarlo è il fortunato filone dell’horror, dal primo romanzo gotico del Walpole a oggi.

 

Storia dei Vampiri e degli spiriti malefici, J. A. Collin de Plancy, trad. e a cura di Giovanni Balducci, Luni Editrice, Milano 2023, pagg. 143, euro 18,00. 

La vita quotidiana come gioco di ruolo

Nell’ambito delle “scienze dell’apprendimento” (“learning sciencies”) applicate alle “web community” (chat room, forum, blog, social network, video game), studiose quali Elizabeth Reid, Sherry Turkle ed Amy Bruckman, osservando gli effetti delle nuove tecnologie sull’identità personale nella “società dell’informazione”, hanno rilevato come i soggetti, durante l’“interazione” in rete, godrebbero di una possibilità maggiore di esprimersi e di “presentare” la propria “identità” che, tuttavia, diverrebbe ancor più fluida e multipla di quanto già non lo fosse soggetta alle tradizionali forme di “interazione”, soprattutto a causa dell’assenza del fattore corporeo, e come tale situazione si riverberi nella “presentazione” del proprio “self” “off-line”. Si pensi, inoltre e a maggior ragione, a quanto accade, sempre nel contesto telematico, con i cosiddetti “giochi di ruolo” (role-playing game): se qualsiasi soggetto, durante le comuni “interazioni sociali”, svolge al tempo stesso il compito dell’“attore” e quello di “personaggio”, prodigandosi dunque in un’attività tesa a suscitare impressioni al fine di “mettere in scena” la migliore “immagine di sé” – il “personaggio”, appunto –, si potrebbe ben paragonare la vita relazionale di ognuno, come intesa da Goffman, ad un “gioco di ruolo”, in cui ogni giocatore veste i panni di un “personaggio” creato con date caratteristiche, dipendenti  in parte dalla scelta del singolo, proprio come accade nei “giochi di ruolo, e in parte dall’“interpretazione” che di esso ne fanno gli altri “attori sociali”. Per cui, la forte somiglianza del “gioco di ruolo” alla vita reale e, al contempo, l’assoluta virtualità del “gioco di ruolo”, anche rispetto a quanto si è visto per i social media, unita, per giunta, all’aspetto di una “spersonalizzazione” sicuramente ampliata dall’adozione di una “identità interattiva virtuale”, fanno sì che il coinvolgimento e al contempo il pericolo di una “depersonalizzazione” e l’assunzione di una “identità virtuale” fittizia siano di gran lunga maggiori.