Il mostro che viene dal mare: breve storia criminale dell’impero britannico

Enrico VI

Dietro una facciata fatta di raffinatezza culturale, università prestigiose e più o meno antichi cerimoniali monarchici, l’impero britannico, a un occhio scevro da pregiudizi, rivela una natura ben diversa: quella di un gigantesco cartello criminale che, per secoli, ha dominato il mondo, e continua a farlo, non grazie al diritto o al progresso, ma attraverso pirateria, violenza, manipolazione ideologica e repressione sistemica.

Le origini di questa macchina di dominio affondano nel XVI secolo. Enrico VIII, un sovrano brutale, non esitò a ordinare l’esecuzione di due sue mogli, Anna Bolena e Catherine Howard, e a confiscare i beni della Chiesa. La nascita dell’anglicanesimo, ad opera sua, fu meno un atto religioso che una colossale operazione di rapina legalizzata: fra il 1536 e il 1541, centinaia di monasteri furono soppressi, i loro beni trasferiti alla corona, mentre intere comunità religiose venivano disperse.

Elisabetta I

Sua figlia, Elisabetta I, ereditò questo spregiudicato modello politico e lo portò a nuove vette di scelleratezza. Attorno a sé raccolse non solo uomini di governo, ma anche figure controverse come John Dee, matematico, geografo, cartografo e, nondimeno, anche astrologo e mago, teorizzatore, secondo una bizzarra etimologia, dell’Inghilterra come “terra degli angeli” (Anglia), predestinata a governare i mari e a esercitare un dominio spirituale sul mondo (Armando Savini, Le radici del male). Elisabetta non si fece scrupolo, in barba al diritto, di ricorrere persino all’utilizzo di criminali comuni: i pirati, trasformandoli in strumenti al servizio delle sue smanie imperialiste. Francis Drake e John Hawkins, celebrati in Inghilterra come eroi nazionali, furono in realtà corsari al servizio della corona, dediti a saccheggiare galeoni, a depredare colonie e inauguratori del traffico atlantico di schiavi.

Francis Drake

Tra il XV e il XVII secolo, come strumento della corona per espandere l’impero e ostacolare rivali come la Spagna, le “lettere di corsa” (letters of marque) legalizzavano le azioni dei pirati, trasformando la pirateria in guerra economica autorizzata. Marinai poveri o ex soldati si unirono per arricchirsi, saccheggiando rotte commerciali atlantiche e caraibiche. La pirateria serviva a destabilizzare colonie straniere e accumulare ricchezze per lo Stato e per investitori privati. La cultura popolare e le cronache ne esaltarono e continuano ad esaltarne l’immagine romantica, mascherando violenza e rapina. Ma, fu così che l’Inghilterra costruì un impero predatorio e criminale, fondamento della sua supremazia globale.

Il metodo britannico nelle colonie era chiaro: imposizione di una religione di Stato, lingua inglese obbligatoria, scuole e tribunali modellati su Westminster; compagnie private — come la Compagnia delle Indie Orientali e la Royal African Company — usate come bracci armati per colonizzare, sfruttare e reprimere le popolazioni sottomesse.

Thomas Hobbes

Su questa rotta, l’impero britannico, dopo aver ottenuto la supremazia sulle potenze europee (soprattutto a danno della Spagna), cominciò a sentirsi ormai investito di una missione “civilizzatrice”. Accanto alla violenza di cannoni e flotte, e al crasso inganno della pirateria, l’impero sviluppò un arsenale ideologico non meno temibile. Alcuni filosofi britannici contribuirono a legittimare la sua macchina di dominio. Thomas Hobbes, nel suo Leviatano, descrisse lo Stato come un’entità assoluta cui i sudditi devono obbedire per sfuggire al caos: una filosofia che giustificava l’autoritarismo e il controllo capillare. Le teorie di Francis Bacon, con la loro esaltazione della scienza come strumento di dominio e manipolazione della natura, fornirono un quadro intellettuale che legittimava conquista e sfruttamento, trasformando la conoscenza in strumento di potere e controllo, diremmo oggi, tecnocratico. John Locke, rimasticando in chiave “laica” il tomismo diffuso in Europa, coniò l’idea che il potere statale fosse legittimo a patto che proteggesse i diritti naturali e, soprattutto, il diritto di proprietà, fornendo una giustificazione ideologica al futuro capitalismo. Voltaire, seguace di Locke, con le sue Lettere inglesi, contribuì a diffondere e idealizzare le istituzioni britanniche e la libertà economica, rafforzando la legittimazione culturale dell’impero britannico nel continente. Fu così che, fra Sei e Settecento, l’Inghilterra, dopo aver costruito un impero predatorio e a tratti criminale, divenne anche culturalmente egemone.

Jeremy Bentham, teorico dell’utilitarismo, inventò poi il concetto di Panopticon, carcere-modello in cui i prigionieri si auto-disciplinano perché sempre sorvegliati: una metafora (e uno strumento reale) del controllo sociale che anticipa le logiche di sorveglianza moderne. Adam Smith, celebrato padre dell’economia moderna e del capitalismo, nella sua visione della “mano invisibile” del mercato finì, più o meno nello stesso periodo, per fornire copertura intellettuale al libero scambio coloniale, ignorando le condizioni di sfruttamento brutale e i rapporti di forza che reggevano i commerci imperiali. Tutte queste idee, lette come progressiste e propagandate da filosofi ingenui e dai soliti speculatori, furono in realtà usate per legittimare dominio, sfruttamento economico e sorveglianza, a maggior gloria dell’impero britannico.

Sudditi indiani di sua maestà britannica

Nel XIX secolo, la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, nata come studio scientifico della natura, giunse a fornire il pretesto ideologico definitivo alle mire espansionistiche della corona britannica, venendo trasformata in un efficace strumento politico: se l’uomo nasce in Africa, ma raggiunge il suo zenith evolutivo all’ombra della Borsa di Londra, allora il suo sfruttamento di popoli del tropico può essere mascherato da “missione civilizzatrice”, giustificando soprusi e stragi. Questa dottrina, ampiamente promossa negli ambienti imperiali britannici, servì infatti a legittimare il colonialismo: i popoli colonizzati venivano descritti come “arretrati”, naturalmente destinati a soccombere e a essere dominati.

In India, nel 1857, prigionieri della ribellione vennero legati ai cannoni e fatti esplodere (“blowing from a gun”). Nel 1919, a Jallianwala Bagh, truppe britanniche aprirono il fuoco su una folla disarmata, uccidendo circa 400 persone secondo i dati ufficiali, probabilmente molte di più secondo fonti indipendenti. In Sudafrica, durante la guerra boera (1899–1902), furono creati i primi campi di concentramento moderni: circa 28.000 civili, in gran parte donne e bambini, morirono di fame e malattie. In Kenya, negli anni ’50, durante la rivolta Mau Mau, oltre 100.000 kenioti furono imprigionati in condizioni durissime e migliaia torturati (Caroline Elkins, Imperial Reckoning).

James Bond

Parallelamente, l’impero si reggeva su un potente apparato di spionaggio. Già Elisabetta I aveva istituito reti di agenti e informatori per sorvegliare nemici interni ed esterni. Questa tradizione evolse nei secoli fino a trasformarsi in uno dei sistemi di intelligence più sofisticati al mondo, incarnato da MI5 (il servizio segreto interno) e MI6 (il servizio operativo all’estero). La cultura popolare l’ha persino celebrata nei romanzi e nei film di James Bond: ma dietro il mito glamour resta l’evidenza che lo spionaggio britannico fu sempre, e rimane, un’arma per mantenere il dominio e ostacolare i rivali, con le buone e con le cattive, ma anche con le cattivissime. Si leggano in merito gli illuminanti saggi di Giovanni Fasanella, ad esempio sui casi Moro e Mattei.

Non meno perniciosa si rivelò l’interpretazione delle teorie di Darwin in politica interna. Nacque infatti il cosiddetto “darwinismo sociale”, che reinterpretava la sopravvivenza del più adatto come giustificazione non solo della supremazia europea e della gerarchia razziale, ma anche dell’aristocrazia britannica sulla working class e sui “degenerati”: «L’intero sforzo della natura è di sbarazzarsi dei falliti della vita, ripulendo il mondo della loro presenza e facendo spazio ai migliori», affermava giulivo il sociologo inglese Herbert Spencer (cfr. Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 213).

Ma la violenza dell’imperialismo britannico si esercitò anche, sotto forma di behaviourismo, sul corpo e sulla sessualità. Il moralismo vittoriano e post-vittoriano sviluppò pratiche repressive e disumane: gli omosessuali venivano perseguitati, incarcerati e sottoposti a trattamenti medici coatti. Celebre il caso di Alan Turing, matematico e padre dell’informatica, condannato nel 1952 per “atti osceni” e costretto alla castrazione chimica; morirà poco dopo in circostanze mai del tutto chiarite. La sessualità libera veniva considerata una minaccia all’ordine sociale: non a caso figure come Aleister Crowley, con la sua rottura dei tabù sessuali, finirono demonizzate in patria e scelsero di vivere altrove, arrivando persino a preferire l’Italia fascista di Mussolini a una società che, per pruderie, copriva le gambe dei tavoli.

È difficile farsi un quadro chiaro e coerente delle nefandezze commesse dall’impero britannico lungo tutto l’arco della sua storia, potremmo qui enumerare:

Elisabetta II passa in rassegna truppe coloniali

La Grande carestia irlandese (1845–1852): il Regno Unito continuò a esportare grandi quantità di grano e patate dall’Irlanda, mentre un milione di persone moriva di fame e un altro milione emigrava. Le politiche laissez-faire, ispirate alle teorie di Malthus e Smith, giustificavano l’operato del governo, trasformando la carestia in uno strumento di controllo sociale e repressione politica.
• La Carestia del Bengala (1943): sotto l’amministrazione britannica, circa 3 milioni di persone morirono di fame. Il governo prioritizzava le scorte di cibo per l’esercito e le esportazioni, dimostrando che la fame era il risultato di scelte politiche deliberate più che di eventi naturali.
• Le Guerre dell’oppio (1839–1842, 1856–1860): il Regno Unito combatté la Cina per imporre la vendita dell’oppio, costringendo milioni di cinesi alla dipendenza dalla sostanza. Le guerre sfociarono nella sottomissione della Cina, nella cessione di Hong Kong e nell’apertura dei porti cinesi al commercio britannico forzato.
• Schiavitù e lavoro coatto, protrattosi nel tempo anche dopo l’abolizione legale della tratta: l’impero britannico creò sistemi di indentured labour, ingaggiando con l’inganno indiani, africani e cinesi per lavorare come schiavi nelle piantagioni di Mauritius, Guyana, Fiji e Sudafrica. Le condizioni di lavoro erano disumane, con punizioni corporali, privazioni e mortalità elevata.
• Manipolazione geopolitica in Medio Oriente e Asia: accordi Sykes-Picot (1916), politica del “divide et impera” in India e Africa, confini coloniali tracciati ignorando le etnie locali.
• Ruberie e drenaggio economico: tra il 1765 e il 1938, secondo Utsa Patnaik, circa 45 trilioni di dollari furono drenati dall’India verso la Gran Bretagna. A ragion veduta, lo scrittore e politico indiano Shashi Tharoor definì l’impero britannico “la più grande rapina della storia”.

Fra gli altri misfatti documentati: propaganda e censura, esperimenti medici non consensuali su popolazioni colonizzate, ampio e spesso criminale ricorso all’intelligence e provocazioni spinte sino alla violazione della sovranità di altri Stati.

Dichiarazione Balfour

La politica estera britannica nel XX e XXI secolo mostra continuità: pochi ricordano che la Prima guerra mondiale non fu soltanto il risultato dell’attentato di Sarajevo. Londra vedeva nella Germania un rivale industriale e militare capace di minacciare la sua supremazia imperiale. La politica estera britannica spinse per l’accerchiamento di Berlino, contribuendo a trasformare un conflitto regionale in un bagno di sangue globale. La priorità non era difendere valori universali, ma preservare il predominio dell’impero. Alcune teorie sostengono che Londra non si fece scrupolo nemmeno di provocare con l’inganno l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, attraverso propaganda e incidenti “false flag” come l’affondamento del Lusitania, spalleggiata in questo anche da interessi sionisti, che puntavano a favorire la futura creazione dello Stato ebraico in Palestina, collegata alla britannicissima (e sionistissima) Dichiarazione Balfour.

L’impero britannico, nel corso del XIX e XX secolo, fu tra i fautori, assieme ma contro la Russia, di una strategia geopolitica globale nota come il “Grande Gioco” o “Gioco delle Ombre” (come ebbero a definirla i russi), confrontandosi con la Russia zarista per il controllo dell’Heartland eurasiatico e delle rotte commerciali strategiche. Alcune interpretazioni storiche sostengono che Londra abbia persino favorito indirettamente la nascita del comunismo (Marx stesso stabilì il suo “quartier generale” a Londra) come strumento di destabilizzazione interna della Russia, mirando a indebolire il potere imperiale russo e ad espandersi in Asia centrale.

Chamberlain e Hitler

Successivamente, il Regno Unito mantenne rapporti ambigui con regimi autoritari e dittatoriali: politici come Neville Chamberlain perseguirono politiche di appeasement verso Hitler, mentre membri della famiglia reale Windsor, come Edoardo VIII, manifestarono aperte simpatie personali per il Terzo Reich, e legami aristocratici come quelli intessuti nel secondo dopoguerra dal Principe Filippo con ambienti filo-nazisti evidenziano un approccio pragmatico e opportunista, volto a manipolare ideologie e leader secondo gli interessi strategici dell’impero: basti pensare alla dittatura para-fascista dei Colonnelli in Grecia, voluta fortemente dai brtiannici. In sostanza, Londra alternò sostegno e opposizione a Mussolini, Hitler e Stalin, utilizzando il comunismo, il fascismo e, in seguito, altre ideologie, come strumenti di controllo geopolitico, consolidando la supremazia britannica nel mondo attraverso un approccio pragmatico, spesso contraddittorio e cinicamente opportunista.

Carlo III e Zelensky

Ma l’impero colpisce ancora. Oggi la lingua inglese è divenuta lingua globale, il Commonwealth, nient’altro che una continuazione “politically correct” dell’impero britannico (ufficialmente terminato nel 1997) resiste (vedi Canada e Australia ancora proni a sua maestà), le amministrazioni occidentali sono tutte modellate sull’esperienza britannica. Da almeno un decennio, poi, le relazioni tra Regno Unito e Russia, già tese in precedenza, sono tornate a uno scontro aperto. Londra, dopo aver scatenato in Russia i suoi agenti sotto le mentite spoglie di Organizzazioni Non Governative, e avendo già caldeggiato in funzione anti-russa il colpo di stato di Euromaidan in Ucraina, prepara e foraggia con armi, anche a lungo raggio — come i missili Storm Shadow, usati anche contro obiettivi in territorio russo — i soldati ucraini, e rafforza il suo ruolo di intelligence offensiva e deterrenza attiva. L’ MI6 non manca mai di denunciare “sabotaggi russi” nel territorio britannico e del suo “pollaio europeo”; allo stesso tempo, analisti segnalano che la strategia di Londra appare sempre più orientata a contenere e provocare la Russia su più fronti, dal Mare del Nord alla regione artica, al Baltico. Ex ufficiali britannici hanno parlato pubblicamente di “un percorso sempre più chiaro verso la Terza Guerra Mondiale”, alimentando un clima di allarme e di militarizzazione crescente, escalation incontrollate, guerra ibrida, uso di armi non convenzionali e destabilizzazione globale. Dunque, Londra, pur nella sua discrezione prettamente british, sembra ormai perseguire deliberatamente lo scontro totale, creando un contesto in cui la trappola della guerra mondiale non appare remota.

L’impero britannico, ieri come oggi, continua dunque a mostrare la sua vera essenza: quella di un sistema predatorio fondato su violenza, rapina e manipolazione, capace di travestire i propri interessi con il linguaggio della missione divina, oggi di “pace”, della sicurezza e del progresso.

Incidente dell’Alma

Anche la vita privata della monarchia britannica, simbolo per molti di prestigio e legittimità, è stata coinvolta in scandali che riflettono impunità e corruzione interna: a partire dall’Ottocento con Albert Victor, duca di Clarence, nipote della regina Vittoria, sospettato di collegamenti con l’oscura vicenda di Jack lo Squartatore, fino al caso di Lady Diana: dal suo matrimonio controverso con Carlo d’Inghilterra, alle accuse di infedeltà e di omicidio mediatico, con la famiglia reale accusata di intrighi e coperture, secondo quanto affermato da Al-Fayed padre. O allo scabroso e tragico caso del Principe Andrea con Virginia Giuffrè: fra accuse di stupro e pedofilia con suicidio finale della vittima e collegamenti con Jeffrey Epstein. Tutti fenomeni che evidenziano una cultura predatoria dei membri della famiglia reale e omertosa anche di fronte a crimini gravi. Altri scandali documentati includono festini con minorenni e coperture di abusi interni, da parte di rampolli più o meno in vista del casato, che dimostrano ancora una volta come la monarchia britannica, pur contrabbandandosi per una monarchia costituzionale, con limitati poteri, abbia spesso operato e continui ad operare al di sopra della legge.

Churchill diceva che la democrazia (cioè il sistema creato a Westminster) fosse il sistema politico migliore rispetto a tutti quelli che avevano osato sfidarlo, ma è lecito chiedersi: si può sperare che il kraken britannico un giorno trovi, finalmente, un nemico abbastanza forte e degno da fermarlo? Sarebbe forse l’ora di un regime change Oltremanica… prima che per il mondo sia troppo tardi e che sia Big Ben, ancora una volta, a dire stop!

Giovanni Balducci

 

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